Ernesto Sabato, la classe media e la dittatura

18thMay. × ’11

Riporto un mio intervento sulla figura dello scrittore argentino Ernesto Sabato, pubblicato su Nazione indiana:

http://www.nazioneindiana.com/2011/05/18/ernesto-sabato-la-classe-media-e-la-dittatura/#comment-151633

In seguito alla recente scomparsa dello scrittore argentino Ernesto Sabato – lo scrivo senza accento sulla prima “a”, come d’uso in Argentina – molti blog letterari italiani, a cominciare da Nazione Indiana, hanno pubblicato articoli che commentano la vita e l’opera di questo scrittore. Sul valore dell’opera di Sabato non ho niente di aggiungere a quanto ho letto, perché sono consapevole della qualità della sua narrativa. Ho trovato invece gli articoli italiani lacunosi nella descrizione del profilo politico-biografico di Sabato. Mentre in Argentina alcune scelte di Sabato durante la dittatura di Videla sono state estremamente criticate, in Italia l’autore de Il Tunnel viene ricordato solo per i suoi meriti letterari o per la sua introduzione al rapporto Nunca más, che ne farebbe ipso facto un campione dei diritti umani. Ma era davvero così “earnest” il nostro Ernesto?

Assieme ai suoi meriti come romanziere, molti commentatori argentini (certo non sulle pagine di «La Nación» o del «Clarín») hanno parlato di un uomo con un percorso tutt’altro che lineare, pieno di ambiguità e compromessi rispetto alla dittatura. L’immagine di Sabato è associata a quella di Borges, un altro grande della letteratura e per un certo periodo suo compagno di antiperonismo, che però non brillava di lungimiranza politica appena usciva dai labirinti di carta. L’accusa è nota, e sono note anche le repliche difensive di Sabato e Borges in merito al famoso invito a pranzo che il dittatore Videla estese ai due letterati. È nota la fotografia triste che li immortala accanto al sanguinario dittatore e le mille scuse e giustificazioni che rimbalzarono per anni in Argentina su quell’episodio.

La difesa di Pio Laghi
I dubbi sulla condotta di Sabato durante la dittatura, a lungo coltivati dalla diaspora di scrittori argentini in esilio, esplosero negli anni del ritorno alla democrazia quando il Conadep – organismo creato per eseguire una prima indagine sulle nefandezze della dittatura, presieduto dallo stesso Sabato – pubblicò una lista di repressori responsabili di crimini commessi durante la dittatura di Videla. Personaggi illustri e compromessi non a livello morale, ma a livello penale, ovvero considerati responsabili o corresponsabili di gravi reati. Tra questi c’era monsignor Pio Laghi, uomo del Vaticano a Baires, noto come “il tennista” per le sue partite a tennis col dittatore Videla. A difendere questo indifendibile pelato si alzò in Argentina la voce di Ernesto Sabato, che con l’autorità della presidenza del Conadep interveniva per spezzare una lancia a favore di Laghi.

A pranzo col dittatore
Quando l’autore di Sopra eroi e tombe prese le difese del messo vaticano Pio Laghi un altro scrittore, Osvaldo Bayer, lo accusò sulle pagine del giornale delle Madres in un articolo intitolato La verdad a medias no (de Pio Laghi a Ernesto Sabato), comparso nel numero di gennaio 1985 del «Periódico Madres de Plaza de Mayo». Bayer in Italia non è molto conosciuto. Basti per ora sapere che al contrario di Sabato, che pubblicava anche sui giornali della dittatura, Bayer è stato condannato a morte da un gruppo clandestino armato e costretto all’esilio per aver scritto un paio di libri, poi bruciati nelle pubbliche piazze. L’accusa di Bayer entra nel merito della posizione che Sabato avrebbe tenuto rispetto alla dittatura: un comodo specchietto per le allodole, una sorta di utile pseudo-difensore dei diritti umani, tenuto in un limbo letterario per dimostrare al mondo che in Argentina c’era libertà d’espressione per chi aveva idee non conservatrici (mentre si torturava e uccideva un’intera generazione di avversari politici). In particolare a Sabato non viene rinfacciato tanto o solo il famoso pranzo a fianco di Borges col dittatore ma questa dichiarazione comparsa sui giornali argentini successivamente all’invito di Videla: “Il generale Videla mi ha fatto un’eccellente impressione. Si tratta di un uomo colto, modesto e intelligente. Mi hanno impressionato la vastità di giudizio e la cultura del Presidente” (la frase è riportata alla stessa maniera sui principali quotidiani argentini del 20 maggio 1976). Il numero successivo della rivista delle Madres, pubblicato nel marzo del 1985, contiene una breve e laconica risposta di Sabato e la controreplica di Bayer. Cominciamo con la risposta di Sabato, che dichiara di avere accettato la proposta oscena di un incontro col dittatore solo come “scrittore di una sinistra democratica” che “assicurava la rappresentatività totale degli uomini di cultura non compromessi col terrorismo”. Aggiungeva poi Sabato – senza essere troppo persuasivo – che “era idea generalizzata in quei primi tempi che Videla incarnasse la parte moderata del golpe militare”. In seguito quell’incontro sarà giustificato con argomentazioni che ricordano le giustificazioni del Vaticano sulla comparsa di Wojtyla sul balcone accanto a Pinochet e che non spiegano perché gli scrittori, gli intellettuali o i militanti che non avevano commesso reati e tantomeno erano implicati nella lotta armata, fossero comunque sequestrati e assassinati. Ma lasciamo replicare Bayer, aggiungendo che in altri contesti Sabato dirà, senza riscontri, di aver incontrato Videla per mettere una parola a favore dello scrittore Haroldo Conti, già desaparecido, su mandato dei familiari di Conti. La replica di Bayer è lunga è gonfia di indignazione. Lo scrittore, esule per molti anni in Germania, sostiene che le posizioni tenute in quegli anni da Sabato “hanno prodotto su noi esuli un danno profondo”. Un danno che non può essere cancellato con un colpo di cimosa solo dal rapporto Conadep. Il Nunca más infatti, spesso elogiato come un nobile atto di difesa dei diritti umani, è stato un classico prodotto dell’era della presidenza Alfonsín, ovvero un atto di transizione elaborato in un momento in cui si raccoglieva una documentazione fondamentale mentre tanti si rifacevano una verginità democratica. Senza negare l’importanza storica del Conadep e la capacità che ebbe di produrre documenti sugli anni della dittatura, Bayer critica i criteri di selezioni di certi esponenti di questa organizzazione. Nella commissione di Sabato, secondo Bayer, c’erano limpidi difensori dei diritti umani e altri che erano complici e avevano un passato torbido di collaborazionismo con la dittatura (non stupirebbe allora il rifiuto del Premio Nobel Pérez Esquivel di far parte della Commissione Sabato). Altro punto di critica è l’atteggiamento di condiscendenza che Sabato ha tenuto rispetto al regime. Sabato dopo l’incontro con Videla non si dilunga sui contenuti della conversazione col repressore ma rilascia questa dichiarazione, riportata dal «Clarín» del 20 maggio 1976: “Credo, per ragioni di cortesia, che debba essere la Segreteria di Pubblica Informazione a dare notizia di quello che abbiamo discusso”. Confermato da Prensa: “[…] per ragioni di cortesia, l’informazione deve essere fornita dalla Segreteria di Pubblica Informazione della Presidenza della Nazione”. Erano quindi i sicari della Comunicazione della dittatura a far sapere al popolo che cosa si erano detti Sabato e Videla. Pertanto proprio alla Segreteria di Videla, cioè a un’agenzia di disinformazione sistematica, Sabato riconosceva il diritto di fornire un’informazione obiettiva. Ovviamente la notizia circolò anche all’estero e fu interpretata come un puntello di una fantasmatica politica democratica dei golpisti, che mentre discutevano con celebri letterati di “temi spirituali e storici” – come riportato poi da Sabato – nei giorni precedenti avevano già realizzato il sequestro e l’assassinio di cinquantuno colleghi dell’autore di Sopra eroi e tombe: scrittori, giornalisti, artisti, uomini di cinema e di teatro. Il senso dell’operazione – ne fosse o meno consapevole Sabato, e questo dipende appunto dalla sua perspicacia politica – era quello di una legalizzazione (rivolta più verso gli ambienti della stampa e della cultura esteri, per l’interno bastavano le pistole e la picana) del regime. E Sabato non si fece attendere e si prestò a legalizzare con la propria presenza – e lo stesso fece Borges – il generale golpista e repressore, chiamandolo “Presidente della Nazione”. Sabato dirà in seguito che era andato solo per chiedere informazioni sul desaparecido Huroldo Conti. Gli esuli replicano: poteva andarci in privato, chiedendo un incontro, senza prestarsi a una cerimonia di puntellamento del dittatore. E poi, siamo davvero sicuri che Sabato si sia esposto a parlare di questo con Videla? O rimase in silenzio, come rimase in silenzio quando – sempre durante la dittatura militare – viaggiò in Spagna e in Francia? Quale migliore occasione per denunciare la sorte di Huroldo Conti e delle altre migliaia di desaparecidos, magari sconosciuti militanti che non erano né scrittori né guerriglieri? E invece, Ernesto se calló. Tacque. O anzi, in Francia e Spagna parlò. Ma della purezza della lingua e del suo amore per la Francia. Negli anni l’episodio del pranzo con Videla verrà giustificato in molti modi sia da Sabato che da Borges. Per Sabato addirittura sembra che l’evento venga quasi rimosso e poi trasformato in un’invenzione dei suoi nemici di sempre (gli esuli di sinistra), che a suo dire lo attaccavano perché non gli avrebbero perdonato il suo antistalinismo o il suo antiperonismo. Intervistato per il giornale «La Maga» nel 1995, alla domanda della giornalista che gli chiede “Che cosa può dirmi della sua visita a Videla?” Sabato perde le staffe e risponde: “Vedo che ripete ancora le frasi calunniose che si sono lanciate e che si continuano a lanciare dall’estrema sinistra”. Un evento storico è ormai diventato una calunnia della sinistra (curioso meccanismo paranoide di sostituzione della realtà che funziona anche ai nostri giorni in Italia).

L’eroe della classe media
Si poteva chiedere di più a Sabato? Se lo domanda anche Bayer. E la sua risposta è: onestamente no. Cito Bayer: “Sabato è il rappresentante legittimo della nostra classe media. […] Che in lui si vede pienamente riflessa: i suoi fantasmi, le sue paure, i suoi successi, la sua necessità di vedersi premiata, la sua assenza di contrizione, la sua incapacità di provare rimorso. Passa allegramente, senza alcun problema, dalla più tragica delle dittature a un paese con libertà civili, senza sacrificare neanche una lacrima.” Insomma, Sabato sarebbe un grande letterato con tutti i vizi della classe media argentina, ansioso di esprimersi su tutto e su tutti, di non perdere il treno delle opportunità, di non rimanere a terra. Funzionario della dittatura di Aramburu, poi del governo di Frondizi, quando annusa il ritorno di Perón dice che “L’argentina necessita un De Gaulle.” Vorrebbe essere il Malraux di Perón e aspira a dirigere la Biblioteca Nazionale, ma il Vecchio non lo considera e lui ne parlerà – da morto – come di “un sinistro demagogo”. Poi il sostegno – da “scrittore democratico di sinistra”, come dice lui – alla dittatura, e quando il regime vacilla il salto sul carrozzone della pseudo democrazia alfonsiniana.

Operazioni di vernice durante i mondiali della vergogna
Ma facciamo un passo indietro. All’infausto mondiale della vergogna, quello del ’78. Ormai sappiamo chiaramente che gli uffici stampa della dittatura arrivarono a far uso finanche dei detenuti clandestini per orchestrare piani di comunicazione finalizzati a lavare l’immagine dei golpisti all’estero. L’apice di questa strategia fu raggiunto nel corso dei mondiali del ’78, quando tutti i riflettori erano puntati sull’Argentina. Osvaldo Bayer, esule in Germania, ricorda di aver sfogliato nei giorni del mondiale la rivista tedesca «Geo-Magazin» – una di quelle pubblicazioni che si sfogliano dal barbiere o nella sala d’attesa del dentista – e di averci trovato un articolo di Ernesto Sabato. In quest’articolo il lettore tedesco medio trovava il modo di vedere sfatate tutte quelle lamentele degli esuli argentini, che lamentavano continuamente torture e assassinii crudeli. Il golpe di Videla veniva spiegato come una necessità dovuta al caos della Presidenza di Isabelita Perón, un modo per riportare l’ordine nel conflitto tra estremismi di destra e di sinistra (un’asserzione che contiene in nuce la teoria sabatiana “dei due demoni”, cioè la narrazione giustificatoria post-hoc, propagandata da Sabato, che i desaparecidos argentini altro non sarebbero che il risultato del confronto tra terrorismo di destra e quello di sinistra). Citiamo testualmente le parole di Sabato: “L’immensa maggioranza degli argentini chiedeva quasi per favore che le forze armate prendessero il potere. Tutti noi desideravamo che terminasse quel vergognoso governo di mafiosi (quello di Isabelita, ndt).” E di seguito: “Disgraziatamente accadde che il disordine generale, la criminalità e la crisi economica fossero così grandi da non permettere ai nuovi governanti di risolvere questi problemi con i mezzi di uno stato di diritto. Perché nel frattempo ai crimini dell’estrema sinistra rispondeva l’estrema destra con selvaggi attentati di rappresaglia. Gli estremisti di sinistra hanno portato a termine i più infami sequestri e i crimini più mostruosi e ripugnanti”. Dimenticandosi che l’estrema destra non era altro che il poliziotto che si toglieva la divisa e rimuoveva la targa della sua Falcon verde, con la protezione del governo golpista, il futuro presidente del Conadep aggiungeva: “Senza alcun dubbio, negli ultimi mesi le cose sono migliorate nel nostro paese e le bande terroriste armate sono state messe per larga parte sotto controllo”. La stessa documentazione Conadep dimostra che le cose si fecero ancora più barbare nei giorni del mondiale e in quelli successivi all’orgia di calcio. Che l’autore di queste righe dovesse diventare un vessillo dei diritti umani è cosa alquanto sorprendente, o forse è una particolarità di quello strano paese che è l’Argentina. Ma non è finita qui. Non contento, Sabato esigeva più durezza: “La democrazia deve apprendere la sua lezione dalla storia e deve sapere che coi vecchi metodi liberali, ereditati da tempi meno problematici, non si possono dominare i deliri del presente”. Niente male per uno che si definisce “scrittore della sinistra democratica”. L’ambasciata argentina in Germania fotocopiò l’articolo in migliaia di copie. Con quell’articolo, afferma Bayer, “noi esuli in Germania subimmo una dura sconfitta”.

Prima le Malvinas e poi Nunca más
La storia infame della dittatura continua e in certo modo termina con la guerra delle Malvinas del 1982. Poteva il Nostro perdersi questo treno? Certamente no. Le Malvinas sono una “causa sagrada”, una santa causa per cui vale la pena mandare al macello ragazzini di 18 anni. Il 14 giugno del 1982 Sabato dichiarerà alla rivista spagnola «CAMBIO 16»: “Molta gente è morta sotto due metri quadrati di un telo. Ma è un errore credere che due metri quadrati di telo siano solo questo. Trasformati in bandiere sono il simbolo di una ideologia, di una nazione, di una sacra causa. Pertanto sono convinto che sì, in questo caso, vale la pena”. Vale la pena morire per i dittatori a diciott’anni. Infine il ritorno della democrazia, arrivato quasi per caso, in un paese demoralizzato. Sabato diventa il difensore dei diritti umani, il prefatore del Nunca más. “Sono per la giustizia non per la vendetta”, preciserà subito Sabato. La giustizia argentina è ancora in marcia, e arriva tardi, ma questa non è colpa di Ernesto Sabato. Che se ne va con la sua strategia del colpo al cerchio e uno alla botte, e sempre nel giusto medio, senza mai giocarsela troppo. In fondo sono stati indulgenti anche i commentatori di «Pagina/12». Se le rassegna stampa del «Clarín» o de «La Nación» non brillano per criticità, il giornale che ha ridato voce agli esuli argentini, «Pagina/12» (fondato tra altri anche da Osvaldo Soriano, e famoso per gli articoli di Horacio Verbitsky) si limita a ricordare episodi già noti senza girare troppo il dito nella piaga. Juan Sasturain si limita ad annotare che il vecchio scrittore ormai si era “collocato – senza pudore né dubbi – al di là del bene e del male, sopra le contraddizioni occasionali, in un terreno di naturale impunità che gli permetteva, notoriamente, prima di partecipare a un incontro con Videla e poi di presiedere la Conadep” (Juan Sasturain, La importancia de llamarce Ernesto, in «Pagina/12», 2 maggio 2011). Come riportato da Silvina Friera nello stesso numero di «Pagina/12», forse l’ultima parola l’ha messa davvero Elvira, l’ultima compagna, al momento dell’interramento della bara. “Anche attraverso i suoi errori, si impegnava in quello che pensava, per quanto si sbagliasse. Dopo, poi, chiedeva scusa”.

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