Perché scrivere?

24thJan. × ’07

Perché scrivere? Perché farsi leggere? Mi sono dato una risposta tempo fa: volevo scrivere per trovare complici nel desiderio di vivere la mia vita contro tutto ciò che la minaccia. Scrivere con la stessa leggerezza con cui si beve un bicchiere di vino: per piacere, per scaldarsi il cuore, per diventare molesto. Da allora ho scritto e continuo a scrivere, ho tradotto e traduco ancora, sbattendomi come un pazzo per trovare io stesso autori da tradurre, scrivendo dozzine di lettere a editori, facendomi intermediatore, vergando mail e lettere in inglese, spagnolo, francese, italiano. Ho rotto le palle a editori e autori più noti, e continuerò a farlo, perché la letteratura sommersa, radicale e antagonista, quella che piace a me, possa trovare nuovi lettori italiani. Ho fatto così con i miei scritti e con quegli scritti che in altre lingue mi hanno accelerato il battito cardiaco, mi hanno fatto sentire come se avessi il diavolo in corpo… ho iniziato a far circolare le mie passioni e la mia rabbia attraverso la scrittura, e spero che questa non ne diventi il circuito che la limita, trasformando la rabbia in arte o letteratura e depotenziandone la capacità esplosiva. Pretendo che scrivere e leggere sia un’urgenza vitale, un innesco di emotività e intelligenza non completamente confinabile in quegli oggetti rilegati, o più spesso incollati, che si vendono un tanto a chilo, ormai, nelle librerie. A volte è andata bene, altre volte no. Potassa è stato il mio messaggio nella bottiglia. Qualcuno l’ha raccolto. Continuo a infilare messaggi nelle bottiglie e a scagliarle. Alcuni di questi messaggi li ho scritti io. Altri li hanno scritti persone che stimo, che ho conosciuto magari solo attraverso quella ruminazione che faccio di un testo, quando leggo. La mia è una sorta di fissazione: viaggio, scopro libri, ho un sesto senso per sfondare le porte delle case di autori sconosciuti: anarchici, vecchi ribelli, neo-situazionisti erotomani e anticlericali. Se il loro libro mi piace, inizio a bussare alle porte degli editori, dei redattori, degli autori affermati (per fortuna ce ne sono alcuni disposti a sbattersi per far circolare testi che non hanno fortuna commerciale). Sono stato a lungo un pusher di libri, da quando mi spostavo da un centro sociale all'altro con le cassette piene di edizioni pirate dalle copertine sporche di vino. È quello che mi piace fare, mescolare vino e lettura, passione e scrittura. Tutto il resto è letteratura.

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2 Comments

  1. aletozzi
    Posted January 29, 2007 at 11:46 pm | Permalink

    Perché scrivere?

    Perché no, mi viene subito da rispondere da bastian contrario: in fondo è un’espressione dell’animo umano, e come tale non è che vada troppo giustificata.

    Quasi come se uno dovesse star lì a motivare perché ammiri un tramonto, vada a camminare nei prati, ami, o faccia una carezza ad un bambino: cosa vuoi spiegare? Semmai si dovrebbe spiegare il contrario…

    Nel mio caso scrivere spesso è una battaglia di retroguardia contro l’oblio, come se mettere su carta alcune righe possa aiutare me, e quei pochi altri che le leggeranno, ad averle come punto di riferimento. Anche per criticarle, nel caso, ma sempre a testimonianza di un qualcosa che è stato: una serata, un’emozione, un viaggio, una litigata, una battuta.

    Lavoro da scriba, o poco più, nel quale lo svolazzo è limitato al minimo, lo scopo è quello di far sopravvivere. E quando si cerca questo il volo pindarico è minimo, di solito, si pensa più a salvare il moribondo che a vedere se ha necessità di mettersi a dieta, o avrebbe bisogno di un’abbronzatura.

    Lavoro facile, ma complicato allo stesso tempo: un po’ giornalisti, senza essere pagati da un caporedattore, un po’ scrittori, ma con l’obbligo di partire dalla realtà. Facile all’apparenza, ma poi alla fine è un lavoraccio, spesso, perché magari una poesia, o un raccontino col finale morale, ruba di più l’occhio. Un po’ come può essere il lavoro del fotografo, che uno vede una foto e non è che sta lì a pensare a che cosa ci sia dietro: vede la foto. La foto e basta. Non vede nemmeno il fotografo, quasi come la foto abbia una vita propria. E spesso è così, ma è anche una bravura del fotografo quella di farsi da parte e di raccontare senza far sentire la voce narrante.

    Però non basta questo per scrivere. O forse basta all’inizio, perché poi quando si ha un pubblico anche minimo c’è la tendenza a voler avere dei riscontri, anche minimi, che ci appaghino.

    Ieri alla presentazione di Praticanda 2007, mi si è presentato un avvocato mai visto con in mano “Il praticante può attendere”, dicendo che era necessaria una mia dedica su quel libro, visto che era il manuale sul quale si era formato, e sul quale formava a sua volta i praticanti. Ecco, a volte cose minime tendono a far dimenticare centinaia di bocconi amari, ed anche quell’oblio al quale in fondo siamo destinati, e che pure con le nostre cronache cerchiamo di sconfiggere.

    Non si scrive, a mio avviso, solo per vivere la vita contro tutto ciò che la minaccia e trovare complici in tutto questo. O, meglio si scrive per trovare complici, ma a prescindere dalla vita e da ciò che la minaccia, la scrittura non è solo moralità, spesso è anche disimpegno e, per l’appunto, voglia di testimonianza.

    Forse questo non aiuta a cercare (e trovare) l’immortalità di quel che si scrive, e ci fa tornare alla domanda iniziale: perché no?

    Perché diventa poi difficile star lì a disquisire su un bisogno di una persona, e sul come lo estrinseca.

    Pensare che “Cent’anni di solitudine” nasce –e lo racconterò il 24 febbraio, leggendo un articolo di Garcia Marquez apparso su Repubblica anni fa- da un bisogno che costringe lo scrittore a rimanere in casa per un anno a non fare altro, con moglie e 4 figli a carico, con tutto quel che ne conseguì; mentre altri libri nascono magari a tavolino, come vere e proprie creazioni di marketing, e però fanno sempre parte del grande mondo della letteratura, fa riflettere.

    E che anche noi che scriviamo –magari sempre meno, e questo è un male, a precindere- a volte ci mettiamo a tavolino con l’idea di fare qualcosa di bello, e a volte solo per mettere su carta un’idea, una battuta, un’immagine, senza pretese: ma, in fondo, non è la stessa cosa? Non si tratta sempre di scrittura? Capiamo tutti la differenza fra La Divina Commedia e Gianburrasca, ma cosa gli vuoi dire di male a Vamba? Di non aver scritto un’opera immortale? Ti direbbe, credo, se potesse parlare, “ma va a cagare!”, ed avrebbe anche ragione: non tutta la letteratura che rimane è buona, non tutta la letteratura che non viene pubblicata è pessima, ma questo fa parte del gioco. E non ha nulla a che vedere con la domanda: perché si scrive?

    Sì, scrivere e leggere è un’esigenza vitale, ma non per tutti, purtroppo. Come non lo è vivere, purtroppo.

    Ma questa è tutta un’altra storia.

  2. stefano
    Posted January 27, 2007 at 2:30 pm | Permalink

    se tu non ci fossi bisognerebbe inventarti, e comunque sei l’incarnazione non letteraria dei maremmani ribelli di un tempo….benvenuto, verre!