La traduzione è un furto che ci arricchisce tutti

23rdJan. × ’07

Nel 2005 in Argentina ho intervistato un portavoce di una organizzazione di Mapuche di Neuquen (Patagonia). L’intervista si è svolta in spagnolo, e io ne ho ricavato un articolo in italiano che è un testo derivato di quella conversazione (e ogni testo derivato, a mio parere, è una traduzione). Già nel corso della nostra chiacchierata il mio interlocutore aveva tradotto alcuni concetti dal mapudungun, la lingua dei Mapuche, allo spagnolo. Io poi ho tradotto e adattato l’intervista dallo spagnolo all’italiano. Pubblicata ne “Il Manifesto” del 30 luglio 2005, l’intervista è stata ripresa dalla rivista nordamericana “Green Anarchy”, in traduzione inglese, nel numero dell’autunno del 2005.

In seguito la rivista elettronica d’oltralpe “L’En Dehors” ne ha pubblicato una edizione francese, tradotta a partire dalla versione inglese. Si è così creato un meccanismo interessante, una sorta di telefono senza fili dal mapudungun allo spagnolo all’italiano all’inglese al francese. Certo, i puristi della traduttologia accademica troveranno da ridere su questioni di fedeltà, sia per il mio adattamento, sia per la traduzione verso il francese, redatta da un testo non originale. Eppure io voglio difendere anche il traduttore francese: l’esigenza della controinformazione mi sembra che abbia la precedenza sui purismi semiotici. Di fatto i traduttori si sono rubati l’uno le parole all’altro: il mapuche, che in quanto verken, vocero, portavoce, è un traduttore della cultura del suo popolo; io, in quanto adattatore dell’intervista (ovvero traduttore/autore di un testo che proiettava un io enunciato, più che enunciatore, un po’ come faceva Osvaldo Soriano), e poi il traduttore inglese e quello francese, ci siamo rubati gli uni le parole agli altri. E questo perché non ci interessava la fedeltà del dettato. Quello che volevamo, era trasmettere una nebulosa di senso. Trasmettere una cosmovisione, direbbe il mio amico mapuche. La traduzione allora sarebbe questa operazione di trasformazione da una cosmovisione a un’altra, attraverso il mapuche, il castigliano, l’italiano, l’inglese statunitense e il francese. Leggendo la traduzione verso l’inglese, il primo pensiero che ho avuto è stato: a chi appartengono queste parole che il traduttore nordamericano ha redatto? Al mapuche che parlava spagnolo? All’intervistatore italiano, cioè io, o al traduttore americano? A tutti e a nessuno, ho concluso. Ognuno ha rubato le parole all’altro, per rendere la loro radicalità a una comunità di lettori abitanti in luoghi tanto lontani del pianeta. Il traduttore francese poi, si è impossessato di quelle parole per estendere la nebulosa di senso verso altre latitudini. E così il gioco traduttivo ha funzionato come un furto in cui tutti i derubati si arricchivano, perché tutti erano complici, nella loro lotta a difesa del pianeta dai costruttori di filo spinato e maglioni colorati. Di seguito troverete il mio testo, e le versioni inglese e francese. (con il link ci si sposta direttamente sul testo originale. Le versioni del testo sono comunque disponibili in coda a questo articolo, scorrendo la barra verso il basso).

Da “il manifesto”, 30 luglio 2005

«Gente della terra», senza terra 120 anni di disperata lotta per la propria terra, raccontati da Roberto Ñankucheo, un werken (portavoce) della comunità mapuche di Neuquen, nel sud dell’Argentina

di Alberto Prunetti

Mapuche vuol dire «gente della terra», ma il territorio dei Mapuche scompare sotto l’assedio dei grandi latifondisti. Il conflitto tra i Mapuche e la Compañia de Tierras del Sur Argentino (Ctsa) è arrivato alla fine del suo percorso giudiziario. Per la corte argentina le terre della Patagonia appartengono a chi ne è proprietario secondo i titoli catastali riconosciuti dallo stato. Ma un portavoce dei Mapuche parla di una prospettiva di appartenenza al territorio che non trova posto nella logica dei tribunali. «Sono Roberto Ñankucheo, sono un werken, un vocero, un portavoce della comunità Mapuche di Neuquen, nel sud dell’Argentina. I Mapuche vivono in cinque province in Argentina: Buenos Aires, Rio Negro, Neuquén, Chubut e nella zona nord di Santa Cruz. Poi ci sono i Mapuche che vivono in quello che oggi si chiama Cile, ma che per noi è gulumapu, la terra dell’ovest. Noi per loro siamo puelche, siamo gente dell’est». Puoi riassumere brevemente il contrasto tra i Mapuche e la Compañia de Tierras, che fa capo al marchio italiano Benetton? Benetton è un imprenditore che ha comprato in Patagonia, dove vive il popolo Mapuche, poco meno di un milione di ettari di terreno. Questo si può fare solo con la complicità dei governanti, che hanno venduto tierras fiscales, terre comunitarie, demaniali, o terre comprate da altri estancieros di cui non si avevano titoli di proprietà chiara. Questa terra fu sempre occupata dai Mapuche, ma lo stato argentino non applica la riforma della costituzione del 1994, che riconosce la preesistenza degli indigeni allo stato e a quelli che detengono titoli di proprietà convalidati dallo stato. La legge dice che abbiamo diritto a questi territori ancestrali, ma lo stato argentino non si pronuncia contro Benetton. Il caso più noto è quello della famiglia Curiñanco-Nahuelquir, accusata di aver usurpato terre che appartengono a Benetton. C’è stato in primo luogo una denuncia penale contro i Mapuche per usurpazione, c’è stato un primo verdetto della giustizia penale che dice che non ci fu usurpazione, perché non ci sono gli elementi di reato: non ci fu abuso, non ci fu clandestinità, non ci furono danni, non c’erano insomma le caratteristiche di reato. Però la giustizia civile dice che Benetton possiede un titolo sufficiente di proprietà e non si può dimostrare l’uso ancestrale di questo territorio da parte del popolo Mapuche. In realtà anche in tempi recenti lo stato non ha mai regolarizzato il diritto di proprietà dei Mapuche su questi territori, perché sempre preferisce dare garanzia giuridica agli imprenditori, all’invasione, piuttosto che alle comunità. Vorrei che tu parlassi della differenza tra l’idea europea di essere proprietari di un terreno e il concetto che hanno i Mapuche del fatto di vivere su un territorio. Intanto bisogna capire che su questo punto – «essere proprietario» o «essere parte» – si radica la differenza tra due cosmovisioni completamente antagoniste. Noi pensiamo che siamo parte del territorio, parte della natura, noi spieghiamo la nostra esistenza – come popolo e come individui – con la maniera in cui ciascuno spiega la propria origine. Ogni Mapuche viene da un elemento della natura: questo significa che per ciascuno di noi la propria origine sta in una forza che risiede nel nostro territorio, in questo territorio dove noi viviamo. Nel mio caso, io sono Ñanku – questo è il mio cognome, Ñankucheo – e Ñanku è un’aquila, un aquilotto di questa zona, con il petto bianco. Io spiego la mia esistenza a partire dal tuwun (origine geografica, ndr) e dal kvpalme (origine culturale della natura, ndr), che spiegano da dove ognuno di noi viene: il kvpalme indica da quale elemento naturale veniamo e il tuwun ci dice geograficamente di dove siamo. Il giorno che non ci saranno più Ñanku scomparirà la mia origine, scomparirà il fondamento con il quale spiego la mia appartenenza a uno spazio territoriale. Da qui si fonda il nostro senso di appartenenza a un luogo: appartenere, e non essere proprietari. Però se noi diciamo che non ci sentiamo proprietari di un territorio, questa affermazione viene utilizzata da chi dice, come Benetton: «Io sì, sono il proprietario». Questo è difficile spiegarlo in una società come quella europea, dove ogni territorio si possiede storicamente attraverso una logica di invasione. Immagino sia anche più difficile in una cultura come quella italiana, che discende dall’impero romano. E il diritto romano è la fonte del diritto in Argentina: sulla base di un’idea di proprietà sviluppatasi nel diritto romano si tolsero i terreni ai popoli originari. E ancora oggi si applica questa base di diritto romano che non considera la possibilità dell’uso ancestrale della terra, del fatto di essere parte della terra senza esserne i proprietari: il diritto romano non conosce i concetti di kvpalme e tuwun. Sono definizioni, sono cosmovisioni che non si incontrano. Inoltre la «cosmovisione» occidentale, basata su un’idea di sviluppo intesa come estrazione di risorse, è riuscita a creare una nuova realtà nel mondo dei popoli originari: la miseria. In Africa molti popoli originari non possedevano la parola «povertà» fin tanto che non arrivarono gli europei… Anche nella nostra lingua, il mapudungu, non esiste la parola «mancare», perché prima non mancava nulla: eravamo parte della natura e questa ci dava quello di cui avevamo bisogno per vivere. Non c’era il concetto di «essere povero», di «necessitare qualcosa». La parola «mancare», «necessitare» non è una parola della nostra lingua, nel mapudungu non si può dire «mancare», «aver bisogno di…», bisogna aggiungere il verbo «faltar» dallo spagnolo. É lo stesso qui in America, in molte delle culture originarie non esiste la parola «povertà», «necessità», queste parole arrivarono con l’invasione europea. Questa capacità degli invasori europei di creare definizioni che impoveriscono la realtà è un concetto interessante. La conquista della Patagonia venne chiamata «la campagna del deserto». Però non c’è il deserto in Patagonia… Gli huinca pensavano in modo autoritario: «se non ci sto io, questo luogo è disabitato». Gli indios per loro erano selvaggi, non erano uomini: quindi la nostra terra era un deserto. C’erano popoli, c’erano culture che convivevano con la natura, e avevano vissuto con la natura per migliaia di anni, ma gli occidentali dissero: «qua, se non ci sono città non ci si può vivere, e pertanto questo è un deserto». Tutto dipende dalla cosmovisione, dalla maniera di vedere il mondo. Gli occidentali non rispettano la cosmovisione degli indigeni, di chi vive in questi luoghi. Se si fossero messi ad ascoltare come intendiamo noi la natura, come è possibile relazionarci con la natura… il mapudungun è la lingua, l’idioma che ci permette di relazionarci con la natura. Ma loro mai si fermarono ad ascoltare: capiscono solo quello che è scritto, o che viene convalidato da un tecnico, un professionista, un saggio che dica loro come stanno le cose. Tutte le spiegazioni le generano dalla propria maniera di comprendere il mondo. Non si rendono conto che ci sono molti più mondi che loro ancora non comprendono. Non compresero nemmeno che loro non avevano scoperto l’America: come potevano «scoprire» un continente che già era abitato? Devono rendersi conto che non hanno scoperto niente, che c’erano già altre culture che vivevano qui da migliaia di anni. Però in 500 anni non si sono resi conto di non avere scoperto niente, e ancora pensano di dover portare civiltà e sapere. Ma è un sapere che porta la distruzione. E la distruzione arriva a colpire la vita delle persone. So che ci sono alcuni Mapuche che sono in carcere solo per difendere le loro idee. Qui in Argentina ci sono molti processi contro i Mapuche, e altri ancora ce ne sono contro i nostri fratelli in Cile: anche loro sono parte del nostro popolo e li sentiamo come carne propria. In Cile c’è un livello molto alto di repressione. Di fatto ci sono cause aperte contro circa cento fratelli Mapuche, e altri Mapuche sono stati condannati a dieci anni di carcere. Nel caso mio sono stato in prigione un mese e mezzo per «usurpazione di terra», un’accusa ridicola: come posso usurpare il mio territorio? Lo stato non è mai stato persuasivo, né con le parole né con gli impegni. Anzi: la persuasione è sempre venuta per mano delle armi. Prima con la croce e la spada, e oggi con una spada più sofisticata, ma è la stessa che cinquecento anni fa provò a sottometterci.

Ecco la versione in inglese, da “Green Anarchy”, #21 – Fall/Winter 2005-06 “People of the land” without land An Interview with Roberto Nankucheo

 di Alberto Prunetti

“Mapuche means “people of the land,” but the Mapuche territory is vanishing under the siege of large landowners. The conflict between the Mapuche and the Compania de Tierras del Sur Argentino (CTSA) has run its legal course. For the Argentine courts, the Patagonian lands belong to whomever is the owner according to the property tax registry as recognized by the state. But a spokesperson for the Mapuche speaks of a perspective of belonging to a territory that has no place in the logic of the courts. “I am Roberto Nankucheo, I am a werken, a vocero, a spokesperson for the Mapuche community of Neuquen, in southern Argentina. The Mapuche live in five provinces in Argentina: Buenos Aires, Rio Negro, Neuquen, Chubut and in the area north of Santa Cruz. There are also Mapuche who live in what is today called Chile, but what for us is gulumapu, the western land. We are for them puelche, the people of the east.” Can you briefly summarize the quarrel between the Mapuche and the Compania de Tierras, which relates to the Italian company Benetton? Benetton is the concern that bought a little less than one million hectares of land in Patagonia, where the Mapuche live. This could only have been done with the complicity of government leaders, who sold tierras fiscales, communal lands, state-owned, or land bought from other large-scale landowners for which they did not have clear titles of ownership. This land was always inhabited by the Mapuche, but the government of Argentina did not enforce the reforms of the constitution of 1994, which recognized the pre-existence of indigenous people to the state, who possess state-ratified rights to the land. The law says that we have rights to these ancestral territories, but the Argentine government did not decide against Benetton. The most noted case is that of the Curiñanco-Nahuelquir family, accused of having usurped lands belonging to Benetton. It was originally a criminal complaint against the Mapuche for usurpation, and the first criminal court verdict was that there was no usurpation, because there were no elements of a crime: there was no abuse, no illegal activity, no damages— in short, nothing characteristic of a crime. But the civil courts said that Benetton possessed sufficient title of ownership and that the ancestral use of this territory by the Mapuche could not be shown. In reality even in recent times the state has never formalized the rights of the Mapuche to these lands, because it always prefers to give legal guarantees to entrepeneurs, to invasion, rather than to the community. I would like you to speak of the difference between the European idea of being owners of the land and the concept the Mapuche have of living on a territory. To begin with one must understand that on this point – “being owner” or “being part of” – the difference between two completely antagonistic worldviews is itself rooted. We think of ourselves as part of the territory, part of nature, we explain our existence—as a people and as individuals—by the manner of which every one of us explains our own origin. Every Mapuche comes from an element of nature: this means that for each one of us our own origins are in forces that reside in our territory, in this territory where we live. In my case, I am Nanku – that is my surname, Nankucheo, and Nanku is an eagle, a young eagle of this area, with a white breast. I explain my existence by way of the tuwun [editor’s note: geographical origin] and the kvpalme [editor’s note: cultural origin of nature], that explain where each one of us comes from: the kvpalme indicates from which natural element we come and the tuwun tells us where we are geographically. When the Nanku are no more, my own origin will disappear, the foundation on which I explain my belonging to a territorial space will vanish. From here our sense of belonging to a place is formed: belonging to, and not being owners. But if we say that we do not feel ourselves to be owners of a territory, this assertion will be used by those who say, as Benetton: “Yes, we are the owners.” This is difficult to explain in a society like that of Europe, where every territory is owned historically through the logic of invasion. I imagine that it would be even more difficult in a culture like that of Italy, which descended from the Roman Empire. And Roman law is the foundation of the law in Argentina: on the basis of an idea of ownership developed within Roman law they took lands away from the indigenous people. And still today they apply this basis of Roman law that does not consider the possibility of an ancestral use of the land, of the fact of being part of the land without owning the land: Roman law did not know the concepts of kvpalme and tuwun. They are definitions, they are world-views that do not encounter one another. In addition, the “Western” world-view, based on an idea of development understood as the extraction of resources, has succeeded in creating a new reality in the world of indigenous people: misery. In Africa many indigenous people had no word for “poverty” until the Europeans arrived… Also in our language, mapudungu, there is no word for “to lack,” because before we did not lack anything: we were part of nature and nature gave us that which we needed to live. There was no concept of “being poor,” of “needing something.” The words “to lack,” “to need” are not words in our language, in mapudungu one cannot speak of a “lack” or “I need…,” we have to add the Spanish verb faltar. It is the same in America, in many of the indigenous cultures there exists no word for “poverty” or “need,” these words arrived with the European invasion. This ability of the European invaders to create definitions that impoverished reality is an interesting concept. The conquering of Patagonia was called “the conquest of the desert.” But there is no desert in Patagonia… The huinca* thought in an authoritarian mode: “If I am not here, this place is uninhabited.” The Indians were, for them, savages, they were not human beings: therefore, our land was a desert. There were people, there were cultures that lived together with nature, and they had lived with nature for thousands of years, but the Westerners said: “If there are no cities here one cannot live here, therefore, this is a desert.” Everything depended on the world-view, on the way of seeing the world. Westerners do not respect the world-view of the indigenous people who live in these places. If only they were in a position to listen to how we understand nature, how it is possible to relate ourselves to nature…Mapudungu is a language that permits one to relate oneself to nature. But they never stop to listen: they only understand what is written, or that which is validated by a technician, a professional, an expert that tells them how things are. All the explanations produce the same way of understanding the world. They do not appreciate that there are many more worlds that they still do not understand. None of them understood that they did not discover America: how could they “discover” a continent that was already inhabited? They must come to the realization that they have not discovered anything, that there were already cultures that lived here for thousands of years. But in 500 years they have not become aware that they did not discover anything, and they still think they have to bring about civilization and knowledge. But it is a knowledge that brings destruction. And the destruction comes to strike at the life of the people. So that there are some Mapuche who are in jail simply for defending their ideas. Here in Argentina there are a lot of trials against the Mapuche, and also still against our brothers in Chile: they are also part of our people, we feel that they are of the same flesh. In Chile there is a very high level of repression. In fact there are open cases against approximately one hundred of our fellow Mapuche, and other Mapuche have been sentenced to ten years in prison. In my own case I was in jail for a month and a half for “usurpation of land,” a ridiculous accusation: how can I usurp my territory? The state has never been persuasive, neither with its words nor with its agreements. On the contrary: its persuasion has always come by force of arms. First with the cross and the sword, and today with a more sophisticated sword, but it is the same one that tried to subdue us 500 years ago. *Translator’s note: huinca is a Mapuche word that is used for various designations, including “foreigner,” “white man,” “Christian,” and “an outsider to Mapuche culture.”

Ecco la versione francese, redatta da “Ferox”:

Entretien avec Roberto Ñankucheo

par Alberto Prunetti.

« Peuple de la terre » sans terre.

« Mapuche » signifie « peuple de la terre », mais le territoire des Mapuche disparaît sous la pression des grands propriétaires terriens. Le conflit qui oppose les Mapuche à la Compania de Tierras del Sur Argentino (CTSA) a suivi son cours légal. Pour les tribunaux argentins, les terres de Patagonie appartiennent à celui qui les possède en fonction du registre fiscal de la propriété reconnu par l’Etat. Mais un porte-parole des Mapuche parle de la « possibilité d’appartenir à un territoire », qui n’a pas de sens dans la logique des tribunaux. « Je suis Roberto Nankucheo, je suis un werken, un vocero, un porte-parole de la communauté mapuche de Neuquen, au sud de l’Argentine. Les Mapuche vivent dans cinq provinces argentines : Buenos Aires, Rio Negro, Neuquen, Chubut et dans le nord de Santa Cruz. Des Mapuche vivent aussi dans ce qu’on appelle aujourd’hui le Chili, pour nous Gulumapu, « le pays de l’ouest ». Pour eux, nous sommes les puelche, « le peuple de l’est ». » Pouvez-vous résumer en quelques mots la querelle qui oppose les Mapuche à la Compania de Tierras, elle-même en rapport avec la société italienne Benetton ? Benetton est le groupe commercial qui a acheté un peu moins d’un million d’hectares de terres en Patagonie, où vivent les Mapuche. Cela n’a pu se faire qu’avec la complicité de responsables gouvernementaux, qui ont vendu des tierras fiscales, terres communales appartenant à l’Etat, ou terres achetées par d’autres propriétaires terriens de grande envergure qui ne possédaient pas pour elles de titres de propriété en règle. Ce pays a toujours été habité par les Mapuche, mais le gouvernement argentin n’a pas renforcé la réforme de la constitution de 1994, qui a reconnu l’existence d’un peuple indigène présent avant l’instauration de l’Etat argentin, peuple qui possède des droits à la terre ratifiés par l’Etat. La loi dit que nous avons droit à ces territoires ancestraux, mais le gouvernement argentin n’a pris aucune mesure contre Benetton. Le cas le plus connu est celui de la famille Curiñanco-Nahuelquir, qu’on a accusée d’avoir usurpé la possession de terres appartenant à Benetton. A l’origine, une plainte pour crime a été déposée contre les Mapuche pour usurpation, et le premier verdict qu’a rendu la cour pénale a été un non-lieu – pas d’usurpation, parce qu’il n’y avait eu aucun élément caractérisant un crime : pas d’abus, pas d’activité illégale, pas de dommages. Mais le tribunal a dit que Benetton possédait suffisamment de titres de propriété et que l’usage ancestral de ce territoire par les Mapuche ne pouvait pas être démontré. En réalité, même à date récente, jamais l’Etat n’a rendu formels les droits des Mapuche sur ces terres, parce qu’il préfère donner des garanties légales à des entrepreneurs, à l’invasion, plutôt qu’à notre communauté. Je voudrais que vous parliez des divergences entre l’idée que se font les Européens de la propriété du sol, et la notion d’habitation d’un territoire pour les Mapuche. Pour commencer, il faut comprendre que sur ce point – « être propriétaire » ou « faire partie de » – la divergence qui existe entre deux visions du monde profondément opposées est elle-même bien enracinée. Nous nous pensons comme une partie du territoire, une partie de la nature, nous expliquons notre existence – en tant que peuple et en tant qu’individus – de la même manière que celle par laquelle chacun d’entre nous expliquons notre propre origine. Chaque Mapuche est issu d’un élément de la nature : cela signifie que chacun de nous a pour origine les forces qui habitent notre territoire, celui où nous vivons. En ce qui me concerne, je suis Nanku – c’est mon surnom, Nankucheo, et Nanku est un aigle, un jeune aigle qui vit ici, qui a une poitrine blanche. J’explique ma propre existence par le tuwun [origine géographique] et par le kvpalme [origine culturelle de la nature], cela explique d’où vient chacun de nous : le kvpalme indique de quel élément naturel nous sommes issus, et le tuwun indique où nous nous trouvons géographiquement. Quand les Nanku ne seront plus, ma propre origine disparaîtra, ce qui fonde l’explication de mon appartenance à un espace territorial s’évanouira. C’est à partir de là que se forme notre sentiment d’appartenance à un lieu : appartenir à un lieu, et non être possesseurs d’un lieu. Mais si nous disons que nous ne nous sentons pas possesseurs d’un territoire, cette assertion sera utilisée par ceux qui, comme Benetton, disent : « Oui. C’est nous qui sommes les propriétaires. » C’est quelque chose qu’il est difficile d’expliquer dans une société comme celle de l’Europe, dont chaque territoire est l’objet d’une possession historiquement assignée, déterminée par la logique de l’invasion. J’imagine que ce serait encore plus difficile à comprendre pour une culture comme celle de l’Italie, qui descend de l’Empire romain. La fondation du droit en Argentine, c’est du droit romain : sur les fondements d’une idée de la propriété développée par le droit romain, ils ont pris possession des terres en les subtilisant aux peuples indigènes. Et aujourd’hui encore, ils appliquent ce fondement de droit romain qui ne prend pas en considération la possibilité qu’une terre ait été occupée de manière ancestrale, ni que l’on soit une partie d’une terre sans la posséder pour autant : le droit romain ne connaissait pas les notions de kvpalme et de tuwun. Ce sont des définitions, des visions du monde qui ne convergent pas. En outre, la vision du monde « occidentale », basée sur une idée du développement entendue comme extraction des ressources naturelles est arrivée, et a créé une réalité nouvelle dans le monde du peuple indigène : la misère. En Afrique, nombreux sont les peuples indigènes qui n’avaient pas de mot pour dire la « pauvreté » avant l’arrivée des Européens… Dans notre langue non plus, le mapudungu, il n’y a pas de mot pour dire « manquer de quelque chose », parce qu’auparavant nous ne manquions de rien : nous étions une partie de la nature et la nature nous donnait ce dont nous avions besoin pour vivre. Il n’y avait pas de concept comme « être pauvre », ou « avoir besoin de quelque chose ». Les mots « manquer de quelque chose » ne sont pas des mots, dans notre langue ; en mapudungu on ne peut pas parler de « manque » ni dire « j’ai besoin de », nous devons ajouter le verbe espagnol faltar. C’est la même chose qui se passe en Amérique : dans de nombreuses cultures indigènes, il n’existe pas de mots pour dire « pauvreté » ou « besoin », ces mots sont arrivés avec l’invasion européenne. Cette capacité des envahisseurs Européens à créer des définitions qui appauvrissent la réalité est un concept intéressant. La conquête de la Patagonie a été appelée « la conquête du désert » – alors qu’il n’y a pas de désert en Patagonie… Les huinca [NdT : mot mapuche qui désigne entre autres : « étranger », « homme blanc », « chrétien » et « homme étranger à la culture mapuche »] pensaient sur le mode de l’authorité1 : « Si je ne suis pas ici, ce lieu est inhabité. » Les Indiens étaient pour eux des sauvages, ce n’étaient pas des êtres humains : par conséquent notre terre était un désert. Il y avait des peuples, des cultures qui cohabitaient avec la nature, et ils avaient vécu avec la nature pendant des millénaires, mais les Occidentaux dirent : « S’il n’y a pas de ville à cet endroit, il est impossible d’y vivre, par conséquent c’est un désert. » Tout dépendait de la vision du monde, de la façon de voir le monde. Les Occidentaux ne respectent pas la façon de voir des peuples indigènes qui habitent ces lieux. Si seulement ils étaient en mesure d’écouter ce que nous entendons par nature, d’écouter comment il est possible de nous rapporter à la nature… Mapudungu est une langue qui permet de se rapporter à la nature. Mais ils n’arrêtent pas d’écouter : ils ne comprennent que ce qui est écrit, ou ce qui est validé par un technicien, un professionnel, un expert qui fasse état des choses pour eux. Toutes les explications produisent la même manière de comprendre le monde. Ils n’apprécient pas le fait qu’il y ait beaucoup plus de mondes, qu’ils ne comprennent toujours pas. Pas un n’a compris qu’ils n’avaient pas découvert l’Amérique : comment auraient-ils « découvert » un continent qui était déjà habité ? Il faut qu’il arrivent à se rendre compte qu’ils n’ont rien découvert du tout, qu’il y avait déjà des cultures qui vivaient ici depuis des millénaires. Mais en cinq cents ans, ils n’ont pas pris conscience du fait qu’ils n’ont rien découvert, et pensent toujours qu’il leur faut apporter la civilisation et le savoir. Mais c’est un savoir qui porte en lui la destruction. Et la destruction en vient à frapper les gens dans leur vie. Ainsi, certains Mapuche sont en prison pour n’avoir fait que défendre leurs idées. Ici en Argentine, beaucoup de procès ont eu lieu contre les Mapuche, ainsi que contre nos frères du Chili : ils font partie de notre peuple, nous sentons que nous sommes de la même chair. Au Chili, la répression atteint un niveau très élevé. En effet, il y a beaucoup de procès en cours, contre environ cent de nos camarades Mapuche, et d’autres ont été condamné à des peines de dix ans de prison. Moi-même j’ai passé un mois et demi en prison pour « usurpation de terre », une accusation ridicule : comment usurperais-je mon territoire ? Jamais l’Etat n’a été convaincant, ni par ses déclarations, ni par les accords passés. Au contraire : sa force de persuasion a toujours été la force des armes. D’abord par la croix et le sabre, et de nos jours par un sabre plus sophistiqué certes, mais toujours le même, qui a essayé de nous soumettre il y a cinq cents ans.

1 En traduisant « authoritarian mode » par « mode de l’authorité » (avec un h), j’entends conserver la différence du concept qui est donné ici par rapport au concept d’autorité telle qu’on le trouve dans l’expression « régime autoritaire » par exemple ; le premier exprime davantage une prise de possession et de contrôle exercé par un propriétaire, notion qui n’est pas présente au premier abord dans la notion d’autorité, plus proche de la notion de répression, même si par ailleurs elle peut donner lieu à une prise de possession (NdT).

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