di Alberto Prunetti
Sono sollevato, almeno con la coscienza (è il portafogli a lamentarsi, par contre): “Amianto” non è finito nella cinquina del premio Campiello, elargito dalla Confindustria veneta. La possibilità c’era ed era concreta. Il libro era tra i cento titoli selezionati nella fase finale dalla giuria dei letterati. Come sia arrivato fin là rimane un mistero: “Amianto, una storia operaia”, che interpreta il tema della morte del padre con tanto di maledizione verso il padronato, è stato infatti pubblicato da una casa editrice antagonista che ha una piccola nicchia di lettori aficionados tra i centri sociali italiani. Fionde deboli, che non scalfiscono i Golia dell’editoria italiana. Come sarà arrivato quel sasso a sbattere contro i vetri della fondazione veneta? Uno scherzo alla Confindustria da parte di un giurato? Il senso di colpa dei ceti dominanti? Chissà. Certo che poi le cose sono tornate al loro posto. La giuria, riunita lo scorso 31 maggio, afferma che nell’edizione di quest’anno è un motivo forte la narrativa sui padri, ma poi è un padre borghese, mica operaio come il mio, quello che entra in cinquina a rassicurare i finanziatori del premio e a garantire loro sonni tranquilli, privi di perturbanti fibre bianche. Dovrò quindi sudarmeli, i miei diecimila euro all’anno (tanto ricevono i finalisti), piuttosto che guadagnarli in un giorno solo. Ma almeno non saranno i soldi estratti dal sudore e della fatica degli operai. Il mio premio lo ritirerò domani e sarà quello di esser stato invitato a far parte della delegazione di abitanti di Casale Monferrato e di familiari di vittime dell’amianto che andranno a Torino per presenziare alla sentenza d’appello del Processo Eternit. Alla sbarra non c’è una cinquina, sono solo due i candidati e uno, il barone belga, è appena defunto. Rimane il filantropo svizzero. Ma almeno nei prossimi mesi non dovrò trovarmi di fronte gli applausi imbarazzanti di mani che non hanno mai impugnato una mola, anche se dicono d’occuparsi d’industria. Quali mani? Ce lo spiega Romana Blasotti, “la Romana”, la presidente dell’Afeva di Casale Monferrato, che racconta com’è stato accolto di recente il responsabile, sentenza alla mano, della morte degli operai del rogo della Thyssen: “…e poi arrivano questi signori di Confindustria, che si riuniscono in assemblea e fanno un bell’applauso al manager della ThyssenKrupp che è stato condannato per quei sette morti bruciati, a Torino. Lui si è lamentato dei 16 anni, certo, sono troppi per sette morti… Guarda, avrei proprio voluto esserci, sarei andata su tutte le furie. Ma come si permettono di applaudire? È vero che la condanna è giusta solo fino a un certo punto, ma non perché è troppo pesante o troppo leggera: ma solo perché i morti non ritornano”*. Insomma, l’uva del Campiello non è neanche acerba, ma forse il mio stomaco non la digerirebbe bene, troppo acidula e con la scorza intossicata dai veleni: mangiamo il pane nero dei nostri campi e continuiamo le lotte contro i mulini a vento. Je ne mange pas de ce pain-là, scriveva un poeta surrealista francese, dimenticato dai letterati, amato dagli insorti.
PS: la cosa che mi preoccupava di più era il fatto che quelli in cinquina devono presentare il libro in un albergo di lusso a Punta Ala, dove ho fatto il manovale e il giardiniere anni fa. Con che coraggio avrei incrociato lo sguardo dei miei compagni?
(*La citazione è tratta dal libro sul processo Eternit di Giampiero Rossi, “Amianto, processo alle fabbriche della morte”, Melampo, 2012, p. 159. Dello stesso autore segnalo il bel libro “La lana della salamandra, la vera storia della strage dell’amianto a Casale Monferrato”, Ediesse, 2008)