La mail che mi arriva devo leggerla tre volte. Ormai sono abituato alla demenza della cronaca italiota, ma questa uscita, che qualcuno ha localizzato in coordinate culturali che stanno tra Hitler e Fracchia, mi ha lasciato sorpreso: un assessore alla cultura prepara una lista di epurazione di scrittori italiani affinché i loro libri siano tolti dalle biblioteche del sistema bibliotecario veneto e lascia intendere che ci saranno opportune pressioni per chi non si conformerà alla direttiva fascista. L’eroe del giorno è tale Raffaele Speranzon, uomo di destra che, sentitosi giustificato dall’overdose di odio contro Cesare Battisti, ha proposto di radiare dalle biblioteche venete tutti gli scrittori che appoggiano la causa dell’esule “rifugiato” in un carcere brasiliano.
Mi era già capitato di avere a che fare con libri bruciati nelle pubbliche piazze. Ne ho tradotto anche uno, che negli anni dell’ignobile golpe militare argentino del 1976 era stato ritirato da ogni biblioteca e libreria e bruciato nelle strade da una soldataglia rispettosa di “patria, onore e famiglia”. Eppure deve farmi difetto la fantasia, perché non ero arrivato a pensare che anche le opere degli scrittori che sento a me più affini, nella lettura e nel mio lavoro culturale, potessero correre quella stessa sorte, oggi e in Italia. Di più. Come curatore de “L’arte della fuga” (Stampa Alternativa, 2005) – un’antologia contenente ampi inediti in italiano di un’opera di Cesare Battisti – e in quanto autore de “Il fioraio di Perón” (Stampa Alternativa, 2009) – introdotto da Massimo Carlotto, che Speranzon ha inserito nella sua lista nera – posso rischiare di vedere radiate anche le mie pubblicazioni.
Per il momento, la sparata dell’assessore all’incultura sembra ridimensionarsi. Si tratta forse di una mossa di distrazione, com’è tutto il caso Battisti, per spostare i fari dell’opinione pubblica sui veri problemi della gente (precariato, ristrutturazione del capitale a colpi di ricatto) e su quelli del governo (in piena fase di basso impero). O magari per non dare troppo lustro alla catena di insurrezioni popolari che una dopo l’altra vede un gran numero di nazioni, ultima la Tunisia, coinvolte nella critica diretta delle classi dominanti.
Però può anche darsi, e la cronaca recente ce lo insegna, che passo dopo passo la destra al potere stia affermando pratiche autoritarie sempre più stringenti. La sensazione è che l’assessore veneto si sia mosso su linee guida che probabilmente passeranno in maniera più informale, magari senza risalto mediatico, approfittando della ricattabilità del precariato del personale bibliotecario, o di un senso comune sempre più orientato verso sentimenti tutt’altro che nobili.
Per questo è opportuno rintuzzare ogni momento di restrizione di pratiche di libertà. Altro che assalto al cielo: ormai bisogna lottare anche per tenere i libri in biblioteca. Qui non è in discussione il caso Battisti, perché non si sta parlando di Battisti ma della possibilità stessa di dire quel che si vuole, di poterlo scrivere e di consegnare i propri scritti a quei cantieri di memoria collettiva che sono le biblioteche. Dietro questo caso c’è la necessità di estendere pratiche di libertà che sembravano assodate e che invece, una dopo l’altra, vengono smantellate: tutela e protezione del lavoro, diritti della sanità, adesso anche la possibilità di esprimere le proprie idee. Questa è la faccia della contemporaneità in cui viviamo. I tanto deprecati “anni di piombo”, come li ha impropriamente ribattezzati una storiografia che ci ha consegnati al berlusconismo, erano quelli in cui un operaio poteva comprarsi la casa e mandare un figlio all’università, perché lavorasse (se ne aveva voglia) coi libri invece che col cannello e la saldatrice. Libri che ora un Torquemada di provincia al terzo spritz pretende di mettere all’indice con conseguente proscrizione degli autori.
Più concretamente, l’invito che rivolgo è quello di far circolare quanto successo, di evitare che pratiche censorie si riproducano in altre regioni, di dialogare con i bibliotecari per denunciare opere di intimidazione ai loro danni nelle prassi di incremento dei fondi bibliotecari. A lungo certe sparate fasciste o leghiste sono state interpretate come risibili postumi di sbronze padane. In realtà, sono state spesso lungimiranti operazioni per costituire un senso comune imbarbarito, accidioso e ostile. Alla logica della chiusura identitaria, della memoria falsificata dalla tradizione, bisogna rilanciare con una campagna che difenda il lavoro culturale (quello degli scrittori, dei lettori, dei bibliotecari e degli editori). Un lavoro di cui c’è un bisogno enorme, in un paese in cui un assessore alla cultura pratica la censura, il ministro delle pari opportunità è un esempio concreto di antifemminismo e quello dell’Istruzione distrugge l’università.