Visto cosa rischia inVeneto (e forse presto in Italia) chi scrive con l’idea di “dare testimonianza nei momenti difficili”, ripropongo un mio articolo pubblicato il 7 luglio 2005 su Il Manifesto dedicato a Rodolfo Walsh, scrittore desaparecido i cui libri furono bruciati nelle piazze da una soldataglia rispettosa di “patria, famiglia e onore”.
Il fumo si alza lento e bianco dalle pagine di quei libri ancora imballati. Ne arrivano a camion interi e li scaricano a terra prima di ricoprirli di benzina. Sono i fondi delle case editrici che dopo il torchio della tipografia conoscono il fuoco della censura della dittatura militare. La cellulosa diventa cenere in un campo della periferia di Buenos Aires, ma prima di essere divorata dalle fiamme la copertina di un libro riesce per un attimo a farsi beffa degli inquisitori: la carta da pacchi si consuma e lascia intravedere un disegno ispirato alla fucilazione dei patrioti spagnoli di Goya. Sopra il disegno della fucilazione, un titolo pesante quanto un ultimo insulto ai repressori: Operazione massacro. L’autore di quel libro si chiama Rodolfo Walsh, e i militari argentini hanno bruciato i suoi libri nel 1978, un anno dopo aver bruciato il suo cadavere.
Il codice segreto della Cia
La «tigre» Astiz lo voleva vivo per interrogarlo sul tavolo della tortura, ma lui sapeva come rovinare i piani dei militari. Lo aveva già fatto una volta con gli americani, quando a Cuba all’inizio degli anni `60 trovò un rotolo cifrato stampato da una telescrivente dell’agenzia Prensa Latina. I nordamericani progettavano l’invasione dell’isola utilizzando una base segreta guatemalteca e lui riuscì a decifrare il piano in codice della Cia con un semplice manuale di crittografia comprato in una libreria dell’Avana. Il piano della Cia naufragò per colpa di questo argentino, che Gabriel Garcia Marquez ricorda come «lo scrittore che arriva prima della Cia». L’autore di Cent’anni di solitudine racconta che Walsh avrebbe anche pensato per un attimo di travestirsi da prete e utilizzare il suo ottimo inglese – privilegio degli anni d’infanzia trascorsi in un collegio religioso irlandese – per penetrare nella base segreta guatematelca.
C’è un fucilato che vive
Già una volta aveva rotto i piani dei militari. Nel giugno 1956 lui è un oscuro traduttore di racconti gialli che a volte pubblica qualche articolo sui giornali argentini. Una sera se ne va in un bar, ammazza il caldo con una birra Quilmes ghiacciata e gioca a scacchi. È una notte afosa, in cui sembra che niente possa accadere. Ma proprio quella notte un gruppo di peronisti ha provato a sollevarsi e la repressione di stato si fa strada fino ad una discarica della provincia di Buenos Aires, dove si procede alla fucilazione di un gruppo di persone, accusate di essere responsabili dei disordini. Nessuno doveva saperne niente, ma qualche tempo dopo un tizio rivela questo episodio proprio a Walsh. Una fonte attendibile? Certo, l’uomo è un «fucilato che vive», che si è salvato fingendosi morto. Walsh non perde tempo. Affitta una casa in un’isola appartata del delta del Tigre con il falso nome di Francisco Freyre, si porta dietro solo un revolver e una macchina da scrivere, e in qualche settimana scrive una serie di articoli che metteranno il governo argentino con le spalle al muro. Pubblicati nella rivista “Mayoría”, gli articoli saranno poi raccolti nel libro Operazione massacro, in cui elabora l’indagine giornalistica con lo stile dell’hard boiled americano.
Con Operazione massacro Walsh ha ormai consolidato la propria vocazione di scrittore. Ma non c’è niente di mistico in questo officio, è un officio violento, terreno, che lo porta in più di una occasione a scrivere sotto falso nome, ad andare in giro portandosi una pistola in tasca. I militari si ricordano di lui negli anni `70, e la Triple A, l’Alleanza Anticomunista Argentina, non gli perdona la sua capacità di mettere i bastoni tra le ruote del potere. Nel frattempo lui è entrato nel gruppo dei montoneros, il gruppo della sinistra peronista che ha fatto la scelta della guerriglia e della clandestinità. Non teme la violenza, la violenza ha sempre circondato la vita di questo uomo magro, dall’aria mite, con occhiali da miope e la calvizie incipiente. In fondo di morte violenta era morto suo padre, che lavorava in una fattoria della Patagonia: era cascato da cavallo e lui dovette farsi carico di trasportare il quadrupede fino al terreno di un parente, un viaggio di 200 km, prima di abbandonare la campagna. Di morte violenta muore pure sua figlia Vicky. La sua casa venne circondata da centocinquanta militari all’alba di un giorno di settembre del 1976. Anche Vicky pensava che occorresse rispondere colpo su colpo ai sequestri e agli assassini dei militari. Vicky resistette all’assedio dei militari e prima di suicidarsi urlò ai sequestratori: «Voi non ci ammazzate, siamo noi che scegliamo di morire». La morte di Vicky è un colpo duro per Rodolfo. Va a vivere in una bidonville, dove ha aperto una scuola di giornalismo che produce il “Semanario villero”, il giornale degli emarginati. Adesso non dà troppa importanza al fatto di essere uno scrittore, eppure continua a scrivere per necessità. «Se pensate che si possa vivere senza scrivere, non dovete scrivere». Così riassume il suo «violento officio», la sua missione laica di scrittore. I militari risolvono a modo loro questo strana equazione tra morte e scrittura. Oltre a lui, si portano via il poeta Francisco «Paco» Urundo, il romanziere Uroldo Conti, e la saggista Susana «Piri» Lugones, che in passato era stata legata sentimentalmente a Walsh. Susana, per triste ironia della sorte, era figlia del commissario di polizia Polo Lugones, torturatore di chiara fama e inventore negli anni `30 della picana elettrica, la scatola con elettrodi da applicare ai genitali dei dissidenti politici. Lei stessa proverà sulla propria carne tutto l’acume dell’inventiva paterna.
La carta ai militari
Ormai Rodolfo sente che il percorso dei montoneros è un vicolo chiuso. Entra in polemica con i vertici dell’organizzazione guerrigliera, cerca di farsi sentire ma rimane inascoltato. Allora decide di abbandonare Buenos Aires, compra sotto falso nome una casa in provincia, a San Vicente: adesso è un professore di inglese in pensione, inizia a ripulire l’orto, pensa di ricominciare a scrivere. Riesce a stare tranquillo per poco, ma il suo violento officio non gli permette di starsene con una penna in mano a costruire innocui castelli tra le nuvole. La notte del 31 dicembre del 1976 interrompe i festeggiamenti e si siede alla macchina da scrivere. Quando scoppiano i fuochi d’artificio dell’anno nuovo si alza e abbraccia la sua compagna: «Così volevo cominciare quest’anno – dice – scrivendo contro questi hijos de puta». La lettera che si tiene in corpo riesce a firmarla il 24 di marzo del 1977, nell’anniversario del primo anno di dittatura militare. Scrive una lettera sconvolgente e la invia proprio all’indirizzo della giunta militare, siglandola «Rodolfo Walsh, scrittore». È un atto d’accusa stupendo, di una lucidità esemplare, che inchioda per una volta ancora i militari alle loro responsabilità: «Queste sono le riflessioni che nel primo anniversario del suo infausto governo ho voluto far pervenire ai membri della giunta, senza la speranza di essere ascoltato e con la certezza di essere perseguitato, ma fedele all’impegno assunto tempo addietro di prestare testimonianza nei momenti difficili».
I cavalli di Walsh
Pensava spesso ai cavalli della sua infanzia patagonica. Voleva scrivere le sue memorie, e un capitolo doveva essere dedicato ai cavalli. Nello stesso giorno in cui firma la lettera ai militari, inizia anche un racconto, Juan se iba por el rio. Le acque del fiume si prosciugano e il protagonista del racconto monta a cavallo e comincia a fuggire verso le case bianche del sud, dove finalmente sarà al sicuro. Ma l’acqua ritorna troppo velocemente e cavallo e cavaliere affondano nella melma gialla del fiume.
Il sequestrato numero 26.001
La melma viene a sommergerlo il giorno dopo aver inviato la lettera alla giunta militare. Il 25 di marzo, tra le 13,30 e le 16, Rodolfo viene sequestrato da un gruppo operativo della Esma, la Escuela de Mecánica de la Armada. È il sequestrato numero 26.001. Lo vogliono vivo per poterlo torturare, ma lui riesce per l’ultima volta a rovinare i loro piani. Tiene nascosta una piccola pistola Walther Ppk calibro 22. Con questa si sbarazza di uno dei sequestratori, e termina il suo violento officio. «Voi non ci ammazzate, siamo noi che scegliamo di morire».