1954: sessant’anni dopo, la poesia a braccio ricorda i minatori di Ribolla

4thMay. × ’14

di Alberto Prunetti

[Quest’articolo è apparso nell’edizione toscana di la Repubblica lo scorso 30 aprile]

E’ il 1954. La televisione inizia la trasmissione del segnale anche in Italia. In Africa i ribelli Mau Mau lottano contro i colonialisti inglesi. La Jugoslavia cerca un socialismo distinto da quello sovietico. Cary Grant pensa a un nuovo film da girare con Hitchcock. E in Toscana? La notizia forse più rilevante è quella di un’esplosione in una miniera maremmana, a Ribolla, nel pozzo Camorra, dove perdono la vita 43 minatori. Unepisodiochecreeràun’onda di sensazionale emozione e cambierà la vita di molti. Dalle famiglie dei minatori, le vedove e gli orfani, fino a intellettuali come Bianciardi e Cassola che dedicheranno mesi di indagini su quell’evento. Bianciardi arriverà al punto di lasciare la Maremma e di emigrare a Milano, tanto che il protagonista del suo libro più famoso, La vita Agra, giunge a Milano proprio per far saltare il palazzone sede della società estrattiva considerata responsabile del disastro. Una responsabilità mai acclarata in un tribunale perché il processo si chiuse con un niente di fatto. Anzi, con un fatto «che non sussiste». Per quei 43 minatori sembrano quasi valere le parole di Enzensberger, nella traduzione di Fortini: «A schiere dimenticati (…). Non registrati, non decifrabili nella polvere ma scomparsi i loro nomi, i cucchiai, le suole». Non sussistono. La giustizia dimentica, ma i poeti no. A Ribolla lo scorso 13 aprile c’è stato l’annuale raduno dei poeti estemporanei, che tengono viva, tra la Toscana e l’Alto Lazio, la tradizione contadina della poesia d’improvvisazione in ottava rima: inventano endecasillabi sfidandosi a coppie, con una successione metrica precisa e l’obbligo di prendere il filo della rima dove l’ha lasciato l’antagonista.

 

Quest’anno un omaggio doveroso è andato ai minatori morti nell’esplosione di grisù di Ribolla, di cui ricorre il sessantesimo anniversario il prossimo 4 maggio. Per tradizione l’incontro dei poeti cade la seconda domenica di aprile, poi segue il 25 aprile, il primo maggio e la commemorazione della strage del Pozzo Camorra: un calendario fitto in cui la memoria, la poesia, i canti popolari e la politica si incontrano, per trasmettere la memoria come si faceva prima della televisione. Quest’anno a rifornire i poeti di vino schietto c’è Antonello Ricci, studioso di paesaggi e di ottava rima. Colma anche il mio bicchiere e poi si mette a ragionare dell’affresco di Simone Martini, Guidoriccio da Fogliano all’assedio del castello di Montemassi. Antonello mi conduce fuori dal circolo Arci che ospita l’evento. Ci orientiamo sui colli circostanti: mi fa notare che nel punto in cui il cavallo di Guidoriccio posa il suo zoccolo, oggi c’è Ribolla. Un villaggio minerario che è rimasto sotto il tacco della Montecatini, la società estrattiva che poi si è trasformata in Montedison. Un paese che cerca di risanare le ferite della propria memoria anche attraverso la poesia, che alimenta la memoria e passa il testimone alle giovani generazioni. E non è un caso se l’anniversario di quell’esplosione di grisù sia ricordato da una formazione musicale di bambini, che interpretano i versi di un noto poeta improvvisatore, il Mastacchini, uno che ormai molto anziano regala ancora dal palco i suoi versi, cantati con un soffio di voce. “Maledetta miniera tu sia/ maledetto carbon disumano / questo luogo del grossetano / tutto il lutto voleste gettar”. Non stupisce che anche questo sia un canto di maledizione, come accade spesso nella tradizione maremmana: il canto più famoso, Maremma amara, è una maledizione verso una terra che viverci un tempo era una condanna. Ma niente destini avversi o fatalità: è l’uomo a schiacciare il peso di quello zoccolo, a rendere la miniera il pane più duro. Quel pane avogni velenato che cinicamente risolve la contraddizione tipica del capitalismo industriale tra fame e disoccupazione contro pane e malattia: i minatori morti, come scrisse Amedeo Bordiga all’epoca del disastro minerario, «non mangiano». La poesia e il canto popolare. Un binomio che viene evocato dall’organizzatore di ventidue anni di poesia estemporanea a Ribolla: Domenico Gamberi, ex minatore, imponente figura storica della poesia a braccio maremmana. Per tanti anni la sua spalla è stato un altro minatore, Demo Civilini, da poco scomparso. Gamberi, vestito come sempre da cacciatore, ricorda dal palco il Civilini. «Ci incontrammo a lavoro in miniera. Nei momenti di pausa e durante i viaggi si parlava di poeti, di canti popolari, dei maggerini. Capitava di mettersi a cantare. Tra i preferiti c’era la Pia de’ Tolomei e il Caserio». Il Caserio è l’inno scritto dall’anarchico livornese Pietro Gori, molto popolare in Maremma: “Lavoratori a voi diretto è il canto /di questa mia canzon che sa di pianto”. E poi un augurio ai giorni che si approssimano: “Vieni o maggio ti aspettan le genti”. Dietro Gamberi, sul palco, c’è la tradizione e il futuro della poesia a braccio. C’è il vecchio Mastacchini che si regge sul bastone e Enrico Rustici, giovane medico di Braccagni, che colma le ottave con endecasillabi saturi di ritmo e ironia. E poi è tornato anche al suo antico splendore Niccolino Grassi, pastore di Massa Marittima, forse il migliore sulla piazza, che lancia la sfida al cantastorie Mario Chechi. E dietro di loro pare profilarsi ancora la sagoma di un grande poeta contadino come Altamante Logli o di Carlo Monni, che veniva anno come “ascoltante” e alla fine calcava anche lui il palco. 1954. Sessant’anni fa. I morti di Ribolla, l’indagine di Bianciardi e Cassola. Il palazzone de La vita agra. Il neocapitalismo con un piede a Milano e l’altro in provincia, sotto lo zoccolo del cavallo di Guidoriccio da Fogliano. Cary Grant, i Mau Mau. E un apparecchio televisore che entra nelle case degli italiani. Anche nella provincia toscana. La storia di quell’elettrodomestico me la racconta a Ribolla il figlio di un boscaiolo. «In campagna il televisore arrivò da noi per primi. Ce lo regalò un parente che stava bene, faceva il fattore a Rapolano. Ci portò il televisore, lo mettemmo in casa, al podere, col siparietto a tendina, come un mobile. Però non funzionava. Allora sentimmo il sarto. Il sarto aveva le Singer, era l’unico a saper far funzionare le macchine. Ci disse: “Ma ce l’avete al podere l’elettricità?” Il televisore era arrivato anche da queste parti sessant’anni fa, nel ‘54, la corrente elettrica in casa ancora no. E la storia di quei 43 morti allora poteva solo correre di bocca in bocca attraverso le rime dei poeti contadini, senza il filtro dei cinegiornali e dei “comunicati». La televisione ha la memoria corta, i poeti contadini — che conoscono ogni ottava dell’Ariosto — ce l’hanno lunga e ricordano anche oggi. Per questo, per loro, il fatto sussiste

This entry was posted in Interventi and tagged , , , , , . Bookmark the permalink. Both comments and trackbacks are currently closed.