Due volte Marilù Oliva: “Tú la pagáras” e “Cent’anni di Márquez”

21stNov. × ’10

 

Ho tra le mani due opere di Marilù Oliva, comparse quest’anno a distanza di pochi mesi. La prima è il noir “Tú la pagáras” (Roma, Elliot, 2010), la seconda il saggio “Cent’anni di Márquez” (Bologna, CLUEB, 2010).

Il primo che ho letto è il noir. Un noir ha – spesso in maniera centrale, talvolta in modo più marginale – a che fare con un crimine. Ma il crimine non è sempre un fatto di sangue, un episodio specifico di violenza. A volte criminose sono le azioni di un gruppo di attori sociali, o addirittura l’organizzazione di gruppi di potere, legali o meno, occulti o meno, che agiscono in una società. Su questo punto tornerò tra poche righe.

Innanzitutto voglio dire subito che il bel romanzo di Marilù Oliva ha tanti meriti. Potrei sottolineare almeno tre carte che mi sembrano determinanti: la fluidità della lettura (il libro si beve, letteralmente), la tensione dei dialoghi, mai artificiosi e spesso magistralmente tessuti per fare da contrappunto alla prosa narrativa, e infine la capacità dell’autrice di lavorare sull’idioletto della criminologia, cioè sul lessico tecnico di chi si occupa di medicina legale e di tanatologia.

Aggiungerei, a corollario del primo punto (la fluidità della lettura), una considerazione: se la lettura è fluida, è perché la scrittura è elaborata. Dietro a una lettura fluida si legge anche il lavoro tutt’altro che semplice di levigazione, di smerigliatura, di raffinazione, perché dal grossolano emerga il sottile. Un’alchimia che è riuscita benissimo alla Oliva.

Il punto di vista che vorrei invece evidenziare sul romanzo, e ritorno al punto con cui ho aperto la mia recensione, è invece quello dell’atto criminoso che situa “Tú la pagáras” come un’opera di noir.

La mia ipotesi è che l’assassinio che apparentemente fa da cardine al libro sia soltanto pretestuale. Ovvero che sia un espediente narrativo, funzionante ma non determinante nell’eviscerazione (passi il termine da macelleria) dei valori ideologici connotati dal testo. Vorrei avanzare questa ipotesi: che il crimine che la Guerrera si trova davanti, e sicuramente fin dall’inizio la vede nei panni della vittima, è quello del precariato lavorativo, del ricatto, del licenziamento, del mobbing, della minaccia, dell’orario di lavoro che continua anche fuori dalla redazione. La morte del ballerino di salsa sarebbe, almeno nella mia lettura, un pre-testo che innesca un’indagine giornalistica in cui la protagonista esibisce la criminosità del lavoro culturale in cui è inserita in maniera subalterna. Criminosità che tracima dalla redazione del piccolo foglio bolognese e investe le forme in cui una società irrispettosa di ogni diritto ci costringe a lavorare ogni giorno. È questo il crimine che la Guerrera si trova di fronte ogni giorno, attorno al quale l’autrice ha tessuto la trama narrativa del suo testo. Un crimine che avvelena la vita della protagonista del romanzo e la paralizza in una situazione di tensione. Tensione che risolverà superando la prova del drago e trovando un lavoro in un importante quotidiano. Ma qui finisce la fiction… la realtà sa essere spesso più amara.

 

Veniamo al secondo volume. Tra i riferimenti letterari citati esplicitamente in “Tú la pagáras” ci sono due autori di rilievo della letteratura latinoamericana del meraviglioso: Miguel Ángel Asturias, citato in esergo al romanzo, e Gabriel García Márquez, evocato dalla Guerrera prima durante un litigio e poi nel corso di una spiegazione sulla salsa in cui si cita un libro letto due volte, i “Cent’anni di solitudine”, appunto. Dopo solo pochi mesi dal licenziamento del suo romanzo Marilù Oliva ha potuto esplicitare questa passione in senso argomentativo.

L’ha fatto in un saggio monografico dedicato allo scrittore colombiano, di cui l’autrice racconta vita e opere con tanta facilità da far volare le pagine come nella sua precedente prova narrativa. Il saggio non vuole essere un lavoro di critica, magari di quelli che nell’editoria anglosassone si qualificano come “ultimate”. Non si tratta infatti di un testo che pretende nelle sue 139 pagine di analizzare in maniera esaustiva l’opera dello scrittore colombiano. È solo un atto d’amore verso un autore su cui la Oliva ha speso evidentemente tante ore di passione come lettrice, che adesso omaggia con un testo che è un vero “invito alla lettura” dell’opera di Gabo, quasi un volume propedeutico di avvicinamento per chiunque voglia sgombrare il campo e metterne a fuoco la vita e le opere prima di perdersi nella suo Macondo. Ma anche un testo che permette di comprendere la tensione che conduce Marilù Oliva alla scrittura. Non a caso, subito dopo l’introduzione di Omero Ciai – tra i pochi giornalisti italiani che siano riusciti a intervistare negli ultimi anni l’aracatese – c’è una citazione che Oliva ha messo in evidenza: “Che razza di mistero è quello che fa sì che il semplice desiderio di raccontare storie si trasformi in una passione tale che un essere umano è capace di morirne, di morire di fame o di freddo o di quel che sia pur di fare una cosa che non si può né vedere né toccare e che, in fin dei conti, in realtà, non serve a nulla…”. Parole di Garcia Márquez, tratte da “Come si scrive un racconto”, che ci illuminano di una smania di raccontare che l’autrice deve probabilmente aver fatto propria. Parole che mi hanno fatto venire in mente quelle, ancora più drammatiche, del giornalista e scrittore argentino Rodolfo Walsh, che definì la scrittura come un “violento oficio”. Garcia Maquez aveva ribattezzato Walsh “el hombre que se adelantó a la CIA”, perché l’argentino riuscì a sventare un progetto statunitense di invasione militare di Cuba negli anni Sessanta decodificando, con l’aiuto di un manuale di enigmistica e criptografia comprato in un’edicola, un progetto segreto dei servizi americani. Erano gli anni in cui a Cuba il futuro guerrigliero Masetti aveva fondato l’agenzia Prensa Latina e aveva voluto come collaboratori due personaggi come Gabo e Walsh. Gente che quando non scriveva era capace di far fallire progetti quali quelli dell’invasione di Cuba. Altro che scrittura che non serve a nulla…

 

In conclusione, per dare un’idea di quanto la lettura di questo saggio sia appassionante, aggiungo solo questo particolare: volevo leggerlo come faccio di solito con i saggi, ovvero sottolineando abbondantemente, prendendo appunti ai margini del testo. Bene: me ne sono dimenticato. Il saggio infatti si legge come un racconto: aspetti di sapere cosa succede nella pagina successiva e gli appunti rimangono prigionieri nella matita. Magia della scrittura di una lettrice di realismo magico.

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